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La deducibilità delle spese di sponsorizzazione


Chiarire la disposizione legislativa sui costi di pubblicità e il relativo principio di inerenza circa la correlazione costi e ricavi, ex art. 109, comma 5 del Tuir
La deducibilità delle spese di sponsorizzazione

Lo spirito di questo articolo è quello di mettere in evidenza e chiarire come la disposizione legislativa in materia di pubblicità, introduce una presunzione assoluta e che nulla ha a che fare con il principio della correlazione tra costi e ricavi e, come la giurisprudenza ha “sganciato” definitivamente l’inerenza dei costi da una specifica utilità o da un diretto vantaggio per l’attività d’impresa.

La legislazione sulla sponsorizzazione-pubblicità delle associazioni sportive, è disciplinata dall’art. 90, comma 8 della legge 289/2002. La stessa dispone che: “Il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 euro, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell'immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario, ai sensi dell'articolo 74, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.

Da una attenta lettura, si deduce chiaramente il principio della presunzione legale assoluta fino all’importo di euro 200.000,00 annui. Questione, riconosciuta anche dalla stessa amministrazione finanziaria nella circolare 21/2003. In particolare, la Direzione Centrale - Normativa e Contenzioso, testualmente cita: “La disposizione in esame introduce, in sostanza, ai fini delle imposte sui redditi, una presunzione assoluta circa la natura di tali spese, che vengono considerate – nel limite del predetto importo – comunque di pubblicità e, pertanto, integralmente deducibili per il soggetto erogante”. Precisando, tra l’altro che: “la norma introduce una presunzione assoluta in ordine al carattere pubblicitario delle predette erogazioni, dal quale consegue l’integrale deducibilità ai sensi dell’art. 108 comma 2 primo periodo del TUIR. Unica condizione è che le prestazioni pubblicitarie siano effettivamente eseguite, mentre non è necessario dimostrare che dalla predetta attività pubblicitaria possa derivare un incremento del fatturato aziendale”.

Ma, nonostante ciò, le Agenzie Fiscali si ostinano, spesso, a interfacciare il costo con il beneficio che potrebbe avere l’azienda, continuando a percorrere e ad applicare, nella fattispecie, il cosiddetto principio di “inerenza” il quale, anche da un punto di vista normativo, fa fatica ad essere identificato come tale: “stiamo parlando dell’articolo art. 109, 5 comma del T.U.I.R”. Ma, nonostante la predetta norma non enuclea minimamente il famelico principio decantato dalla Agenzie fiscali le stesse, continuano imperterrite ad applicarlo.

Infatti, per l’Ufficio accertatore, secondo detto principio il costo in generale, e quello della sponsorizzazione-pubblicità in particolare, deve seguire l’indirizzo descritto da tale norma che, come dimostreremo tra poco, non prevede alcun principio di inerenza.

In questa sede, occorre chiarire e si spera in maniera definitiva che, la norma in argomento non prevede alcun principio di inerenza, così come appalesato dalle Agenzie Fiscali. Tale principio, in effetti, non è previsto da alcuna disposizione normativa. Esso è un principio generale dell’ordinamento tributario e non l’interpretazione di una norma che è completamente avulsa al concetto di principio di “inerenza” decantato dalle Agenzie Fiscali. Quindi appare opportuno portare a conoscenza l’origine di questo principio che è tutt’altro, all’infuori di essere identificato con il dettato normativo dall’art. 109 comma 5 del Tuir.

Facendo una piccola esegesi del concetto d’inerenza, si impara che questo principio fu introdotto il 24 agosto del lontano 1877 con il Reggio Decreto n. 4021 (Approvazione del testo unico delle leggi d'imposta sui redditi della ricchezza mobile), oramai quasi del tutto completamente abolito da leggi che si sono susseguite nel tempo. Il R.D. stabiliva la deducibilità dal reddito lordo di alcune spese definite inerenti. Pertanto, era un precetto generale di derivazione teleologica delle poste reddituali dell’attività economica ai fini dell’esatta misurazione del reddito d’impresa.

Ora, per quanto attiene la logica lettura dell’articolo 109, comma 5, Tuir, si deduce chiaramente che essa non detta alcun principio d’inerenza, si tratta di un’affermazione ontologicamente errata. Infatti, la predetta norma, non contiene alcuna disciplina generale del concetto d’inerenza, ma fissa soltanto i criteri per il calcolo del pro-rata di deducibilità dei costi.

In buona sostanza, ci sono alcuni casi in cui, un’impresa può generare ricavi imponibili e ricavi esenti. La norma, si pone il problema di discriminare, per ragioni di simmetria contabile, le spese riferibili alla prima categoria, poiché deducibili senza particolari limitazioni. Detto ciò, come conseguenza logica, sarebbe opportuno resistere alla tentazione di dover imporre l’inerenza dei costi entro i confini semantici dell’art. 109, comma 5, del Tuir.

L’inerenza, rappresenta una regola ben definita che identifica il necessario collegamento che ci deve essere tra una componente economica di reddito e l’attività esercitata dall’imprenditore. Essa è individuabile in una relazione di “causa ad effetto” che riguardano i singoli componenti economici all’attività che costituisce la fonte del reddito; in modo tale da permettere di ritenere quei componenti elementari, teleologicamente legati all’esercizio dell’attività d’impresa.

In buona sostanza, l’inerenza è un principio generale dell’ordinamento tributario e non il portato di una singola previsione normativa come spesso affermano le Agenzie Fiscali. Ciò per il fatto che, il principio in argomento identifica la relazione qualitativa tra i componenti elementari di reddito ed una fonte legalmente qualificata, esprimendo nella fattispecie, il metodo della misurazione del presupposto d’imposizione ovvero, quello del reddito d’impresa e della sua funzione economica.

L’art. 109, comma 5, del Tuir non riguarda il principio d’inerenza così come interpretato e arbitrariamente applicato dalle Agenzie fiscali ma, per l’appunto, un diverso principio: “quello della riferibilità delle spese deducibili ai proventi tassabili o esclusi”. In altre parole, la norma in questione, identifica la regola che esclude la deducibilità delle spese direttamente collegate a proventi esenti.

L’inerenza, invece, consiste nel collegamento tra una spesa e il programma imprenditoriale, che nulla ha che fare con art. 109, comma 5 perché questi, come appena descritto, impone una stretta correlazione tra una spesa e quei proventi imponibili o esclusi.

Volendo rimarcare con attenzione il dato letterale, emerge che il principio d’inerenza, in realtà, non ha una disciplina espressa nel Tuir. Ergo, ne discende che la fonte del principio d’inerenza è insita nella stessa struttura giuridica dell’imposizione del reddito d’impresa, ragione per cui, il quantum non trova residenza nell’inesistente principio d’inerenza quantitativa, né tanto meno nell’inesistente potere dell’Amministrazione finanziaria di sindacare scelte economiche imprenditoriali. Un tale comportamento, da parte dell’Amministrazione finanziaria rischia di conferire, alla stessa, il potere di sindacare le scelte imprenditoriali sul mercato.

Significa che, l’Amministrazione Finanziaria può contestare le ragioni per le quali un imprenditore ha scelto di pagare un corrispettivo non allineato con quello del mercato. Di conseguenza, all’imprenditore non sarebbe nemmeno permesso sbagliare; cosa che scoraggerebbe chi si accinge a intraprendere un’attività imprenditoriale, sapendo di essere sempre a rischio di controlli da parte delle Agenzie Fiscali.

Con tale comportamento, l’imprenditore sarebbe costretto ad allinearsi alle direttive di un mercato statico, privo di visioni straordinarie che potrebbero condurre a situazioni completamente innovative.

La tesi testé descritta, è sposata in visione condivisa anche dalla Suprema Corte già con un’ordinanza dell’11 gennaio 2018, n. 450, la quale ha sganciato l’inerenza dei costi dall’utilità per l’attività d’impresa, ritornando ancora una volta sull’art. 109, co. 5 del Tuir, statuendo che: “tale norma manca di una definizione generale d’inerenza, diretta a distinguere, nell’ambito dei costi relativi all’impresa, tra costi leciti e costi illeciti”.

Infatti, gli Ermellini, con tale pronuncia hanno affermato princìpi volti a chiarire il concetto d’inerenza, quale il requisito generale della deducibilità dei costi d’impresa, sia ai fini delle imposte sui redditi sia ai fini dell’Iva.

Ad avallare la tesi sostenuta dallo scrivente, ci ha pensato la Suprema Corte, nell’ordinanza testé richiamata che si è così espressa: “il principio d’inerenza non discende dall’art. 109 del DPR 917/86 (“Tuir”), ma è strettamente correlato alla nozione stessa di reddito d’impresa”. Ne consegue che, l’inerenza non implica l’esistenza di un rapporto causale tra costo e ricavo, ma all’attività d’impresa stesso “[2].

Questo per evidenziare ancora una volta che, con riguardo ai comportamenti economici delle imprese, le esigenze di spesa possono essere le più diversificate rispetto al caso del singolo investitore e possono, in particolare, giustificare il sostenimento dei costi per il conseguimento di obiettivi che, spesso, sono difficilmente valutabili in termini di maggiore utilità a breve, proprio come ad esempio i costi per la promozione e la tutela di un’immagine.

A conclusione di questa dissertazione, possiamo affermare che il costo di pubblicità-sponsorizzazione deve essere computato come costo inerente all’attività d’impresa nel suo significato più ampio e non legato al concetto d’inerenza in senso stretto.

E ciò atteso che, è il principio qualitativo che deve essere valutato ovvero, la sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili, e non tanto, per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, così come continuano ad affermare le Agenzie Fiscali, ma invece come costo legato al potenziale utile che lo stesso potrebbe produrre nel corso degli anni a venire nello sviluppo dell’attività di azienda.

 

[1] I giudici della Suprema Corte in una sentenza del 2016 (Cass. sent. 5720/2016), hanno ribadito che: “Le somme corrisposte per spese di pubblicità agli enti sportivi dilettantistici sono interamente deducibili nell’esercizio, a nulla rilevando l’effettivo ritorno in termini di ricavi da parte dell’impresa in quanto è la norma a prevedere tale qualificazione”.

In direzione del riconoscimento della spesa in ordine alla presunzione legale assoluta:

a) ordinanza della Suprema Corte, n. 21333 del 14 settembre 2017 - ha statuito che: “l’art. 90, co. 8 della legge n.289/2002 introduce una presunzione legale assoluta di qualificazione, nei limiti dei 200.000,00 euro, come spese di pubblicità volte alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante il corrispettivo in danaro (Cass. Ord. n. 7002/17 e 5720/16), quindi inerente e congrue all’esercizio dell’attività dell’impresa”.

b) CTP Modena, Sez. 1^, sent. 389/2018 del 29.05.2018, con la quale i giudici di prime cure hanno statuito che: “in ogni caso, trattandosi di associazioni sportive dilettantistiche, va richiamato il comma 8 dell’art, 90  della legge 289/2002, secondo cui i corrispettivi erogati a favore di società o associazioni dilettantistiche sportive, svolgendo attività nei settori giovanili riconosciuti dalle federazioni nazionali o da enti di promozione sportiva, non superiori a euro 200.000,00, costituiscono per il soggetto erogante spese di pubblicità e pertanto, presunzione legale, interamente deducibili”.

 

[2] In senso conforme Corte Cass. – Sent. 06 giugno 2018, n. 14579 – in tale sentenza la Suprema Corte ha statuito che: “con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione ex art. 109 (già 75) del d.P.R. n. 917 del 1986, va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresasicché il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili”.

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