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Inapplicabilità delle sanzioni tributarie sugli studi di settore


Concetti di inapplicabilità delle sanzioni tributarie su accertamenti fiscali basati e/o derivanti dall'applicazione degli studi di settore
Inapplicabilità delle sanzioni tributarie sugli studi di settore

Per capire meglio ciò che ci accingiamo ad esaminare e a dissertare, occorre preliminarmente comprendere come l’Agenzia delle Entrate fa utilizzo e/o usa gli studi di settore nei confronti del contribuente per accertare e, quindi, computare un maggior imponibile da sottoporre ad imposta.

In questi casi, si parte sempre da un concetto astratto ed ipotetico, in quanto il lavoro degli accertatori si basa su presunzioni. L’istituto della presunzione, è in essenza, l'argomentazione logico-deduttiva attraverso la quale, la legge o il giudice possono dedurre da un fatto già provato (noto) l'esistenza o il modo di essere di un fatto ignoto (art. 2727 del c.c.).

L’agenzia, per l'appunto, rifacendosi di fatto a tale istituto, basa i suoi accertamenti su tali presupposti attraverso i quali determina, in modo presuntivo, maggiori ricavi a carico del contribuente; dimenticandosi che, la realtà economico-finanziaria è fluttuante e che gli studi di settore, in primis, dovrebbero servire quale strumento di ausilio teso a individuare ricavi sottodimensionati rispetto al cluster di appartenenza[1] del contribuente stesso che, potenzialmente, potrebbe essere “sospettato” di condotte evasive e/o elusive.

Tale congettura estrapolata dall'Agenzia delle Entrate, applicando detto strumento, di contro, non comporta automaticamente e non può comportare quale diretta conseguenza del relativo utilizzo che i sospettati contribuenti siano necessariamente colpevoli di non aver dichiarato la differenza tra i ricavi denunciati dal soggetto controllato in sede dichiarativa e quelli maggiori computati dallo strumento degli studi di settore in sede accertativa.

I ricavi, infatti, se visti con la lente del sottodimensionamento[2], possono essere solo un indizio e non una prova, con ciò significando che, il contribuente, non è necessariamente colpevole sulla base delle presunzioni supposte dalle Agenzie delle Entrate ma, per esserlo, occorre sicuramente qualcosa in più.

Il metodo presuntivo, perseguito dalle Agenzie, è quello della statistica che, attraverso modelli matematici, presenta comunque il limite che questa offre, ossia essere un dato indicativo e/o di studio frutto di elaborazioni, e niente di più.

In buona sostanza, lo studio di settore perde la sua affidabilità soprattutto se la statistica (e non può essere diversamente) non tiene conto delle varianti di mercato e della sua perenne instabilità; laddove, uno degli elementi fondamentali per testare il mercato è la domanda che determina l’andamento e il fluttuare del mercato stesso.

E, come dice un noto giornalista, la domanda sorge spontanea: se la domanda subisce una recessione, la statistica, per il soggetto che è stato inserito in quel determinato cluster dello studio di settore, ne tiene conto? La risposta pare essere altrettanto ovvia: No. E, il motivo è altrettanto ovvio: lo studio di settore non è in grado di variare i parametri del cluster in tempo reale e cogliere la mutata situazione economica di mercato.

A ciò, si aggiungono altri fattori che pongono limiti all’uso degli studi di settore. Ad esempio: “l’apertura di un punto vendita concorrenziale o la riduzione dei margini di guadagno, magari dovuto ad una campagna sconti, a volte necessaria o obbligata per restare sul mercato”.

Da quanto sopra esposto, si deduce che lo studio di settore dovrebbe integrare solo ed esclusivamente una presunzione semplice e non legale, come spesso invece accade.

Quindi, possiamo affermare, in maniera obiettiva, che i maggiori ricavi rilevati dall’Agenzie fiscali attraverso gli studi di settore non rappresentano una diretta conseguenza legale, ma integrano presunzioni che sono lasciate alla prudenza dell’organo giudicante in quanto, non costituiscono fatti sui quali fondare una prova per presunzioni, essendo semplici estrapolazioni statistiche che da sole non sono idonee a costituire il fatto noto da cui sia consentito ricavare il fatto ignoto.

Gli studi di settore, li possiamo assimilare metaforicamente ad una copia di un dipinto di un grande pittore: “dagli studi di settore non escono mai dati originali, ma solo copie di elaborazioni di numeri, talvolta anche brutti e poco centrati, che non rispecchiano mai la realtà fattiva e concreta di ciò che dovrebbero degnamente rappresentare”.
Pertanto, se quello che ne discende da tale strumento di calcolo non è neanche verosimile per contro, quello che viene estrapolato e imputato al contribuente come potrebbe esserlo.

Di conseguenza, il contribuente, non trovandolo logico, fa fatica ad adeguarsi agli studi di settore atteso che, a priori, gli studi di settore non sono in grado di adeguarsi alla realtà fattiva dei cambiamenti economici e alla fluttuazione dinamica del mercato.

Di tutto ciò, le Agenzie fiscali non ne hanno mai tenuto conto e continuano imperterrite nella loro “politica” accertativa e, come se non bastasse, oltre ad imputare il maggiore ricavo, applicano anche sanzioni per infedele dichiarazione dei redditi come se la colpa, della mancata dichiarazione del maggiore imponibile imputato, fosse discesa da un’esplicita e/o espressa volontà del contribuente.

La tematica “sanzioni”, inflitte, poi, a seguito di accertamenti derivanti dall’applicazione degli studi di settore, costituisce un argomento da rivedere nel suo insieme, in quanto rappresentata da un istituto la cui applicabilità è completamente fuori luogo in questo contesto, e ciò per il fatto che, il calcolo di un maggiore ricavo con lo strumento degli studi di settore, non è né trasparente né concreto atteso che, non tiene conto delle realtà fenomeniche contingenti collegate alle dinamiche del mercato. Ergo, in chiave complessiva trattando l’argomento dello studio di settore nel suo insieme, l’imponibile computato dagli organi “inquirenti” si ribalta discutibilmente, sic et semplicer, sul contribuente e, come se non bastasse, in aggiunta, si applicano anche le sanzioni al soggetto accertato, per non aver dichiarato un maggior reddito la cui esistenza è frutto di presunzioni statistiche e non fatti provati.

Questa turpe realtà appare del tutto illegittima per il fatto che, pur non potendosi far luogo a sanzioni per la mancata dichiarazione di un ricavo che non sia diretta conseguenza di una constatazione accertativa di maggiori corrispettivi effettivamente conseguiti, in questo contesto, disattendendo detto principio, lo si fa semplicemente in seguito ad una mera “praesumptio hominis”.

Il comportamento dalle Agenzie fiscale, in questi casi, va oltre i principi generali del nostro ordinamento che sottendono al campo sanzionatorio, e in particolare, uno fra tutti, il principio di colpevolezza. Tale principio, nella procedura amministrativa tributaria, è disciplinato all’art. 5, D.lgs. 472/1997, il quale statuisce che: “nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.

È un principio giuridico amministrativo, questo, mutuato dal codice penale che, ai fini dell’applicazione in concreto della sanzione amministrativa, deve viaggiare di pari passo con la stessa filosofia applicativa del precetto penale, corroborandosi pertanto con gli assunti del dolo, della colpa e della colpa grave.

Il dolo è un’azione cosciente e volontaria, che mal si affianca al caso di specie.

Tralasciando tale concetto, pertanto, perché non si può pensare che il contribuente sia in dolo per non aver dichiarato ricavi derivanti dall’assurdo meccanismo degli studi di settore, ci si deve concentrare sul concetto di colpa.

Vi è colpa: “quando l’evento posto in essere dal soggetto si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia e per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline”. Tale concetto è cristallizzato anche nella C.M. n. 180/E del 1998 che definisce la nozione di colpa richiamando l’art. 43 c.p.

Trasferendo tale concetto in campo amministrativo sanzionatorio, possiamo affermare che vi è colpa quando la violazione è stata commessa dal soggetto agente a causa di insufficiente attenzione ai doveri imposti dalla legge fiscale (negligenza), di scelte assunte senza le accortezze consigliate dalle circostanze (imprudenza) e a causa di una insufficiente conoscenza degli obblighi fiscali (imperizia).

Ergo, analizzando le definizioni testé descritte, ai fini dell’applicazione di una sanzione tributaria si richiede, congiuntamente, la presenza dei seguenti elementi:
a)  il soggetto destinatario dalla sanzione sia l’autore della violazione;
b) l’elemento soggettivo del dolo o, quanto meno, della colpa faccia capo all’autore della violazione.

Quindi, ciò evidenziato, personalità e consapevolezza costituiscono presupposti necessari anche per l’applicazione della sanzione amministrativa, alla stregua di quanto previsto dal nostro codice penale.

Ci dobbiamo ora domandare, sulla base degli assunti sin qui trattati, quale colpa ha il contribuente che non ha dichiarato un maggiore imponibile, scaturito a posteriori, da un computo astratto e presuntivo derivante dall’applicazione degli studi di settore. E non si può che rispondere a questa domanda, con un solo e semplice: nessuna.

Tale calcolo, tutt’al più, potrebbe costituire una base di partenza per un accertamento sui redditi, che di certo non potrà mai giustificare l'applicazione di sanzioni, poiché in materia sanzionatoria amministrativa sono applicabili i principi propri dell'illecito penale che richiama, nello specifico, quello della colpevolezza e della personalità della sanzione; il tutto trasfuso nella  D.lgs. 18.12.1997, n. 472 - Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie.

Ciò postula, che l’azione o l’omissione siano coscienti e volontarie ed altresì colpevoli, solo qualora si possa rimproverare all’agente di aver tenuto un determinato comportamento, se non necessariamente doloso, quanto meno negligente.

Negli accertamenti emessi dalle Agenzie delle Entrate basati sugli studi di settore, non vi è alcun riferimento circa le motivazioni che hanno permesso l’applicazione di sanzioni amministrative atteso che, gli organi inquirenti le ritengono applicabili a prescindere che l’accertamento sia stato fatto in modo presuntivo basato su metodi statistici o meno.

Da quanto sopra esposto ne deriva un logico ragionamento sillogistico tra il principio di colpa e quanto dissertato in questa sede sull’uso distorto degli studi di settore e quindi, appare inverosimile che il contribuente, nonostante la mancata prevedibilità negli studi di settore delle realtà dinamiche ed economiche di mercato, debba essere sottoposto a una sanzione per un maggior ricavo che non è mai stato computato e provato in concreto, ma è solo frutto di una congettura astratta e presunta basata su dati statistici di incerta provenienza.

A conclusione, quindi, di questa dissertazione, riteniamo, riepilogando i discorsi, che il contribuente può, e pertanto deve, essere assoggettato ad una sanzione amministrativa, con modo e modalità non diversi da quelli con cui e nella maniera in cui viene comminata una sanzione penale; in difetto di questi presupposti applicativi, così come evidenziato nella fattispecie analizzata, si rende del tutto illegittima l’irrogazione di una sanzione amministrativa.

In buona sostanza, una sanzione amministrativa può essere comminata solo nei confronti di colui il quale, sia pienamente provata l’esistenza per la responsabilità del fatto; diversamente, si andrebbero ad intaccare pilastri del diritto che si elevano a tutela dei principi della personalità e della colpevolezza della sanzione.

 

Avv. Michele Amico

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[1] Gruppo omogeneo di soggetti che all’interno del medesimo settore di attività presentano una certa comunanza di caratteristiche strutturali.
[2] Condotta antieconomica non giustificabile, pure in presenza di una contabilità formalmente regolare (Cass. 33277/2018).

 

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