Il contributo del coniuge ed il valore economico del lavoro domestico

L’art. 143 c.c., dettato in materia di «Diritti e doveri reciproci dei coniugi», stabilisce che «Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione» e che «Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacita' di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia».
La norma declina nella disciplina codicistica il principio costituzionale di eguaglianza tra i coniugi enunciato dalla Costituzione che, all’art. 29, secondo comma, stabilisce che «Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare». Espressione di questa uguaglianza sono l’obbligo di contribuzione reciproca, da un lato, e la possibilità che questo avvenga secondo le capacità proprie di ognuno dall’altro,
Eguaglia che, per essere tale, è propria anche e sopratutto delle scelte individuali, quali, ad es. quella di non lavorare fuori casa scegliendo di dedicarsi alla cura dell'ambiente domestico ed alla crescita dei figli, due fondamentali dimensioni entro le quali l’unione coniugale si esprime.
Per tali ragioni il lavoro domestico assurge al medesimo rango ed ha la stessa dignità di quello svolto all’esterno della casa famigliare, in quanto in modo paritario contribuisce alla vita ed alla crescita della famiglia. Per la stessa ragione, laddove risulti necessario attribuirli un valore economico, il lavoro domestico assume il medesimo rispetto a quello svolto all’esterno.
E se fossimo portati a pensare che questo costituisce unicamente una manifestazione di, pur indiscutibile, principio, dovremmo confrontarci con una realtà nella quale esso viene messo in radicale discussione, ad esempio, quando il coniuge percettore di un reddito per la sua attività, rivendichi la restituzione di denaro impiegato per un acquisto dal coniuge che non svolga un’attività esterna.
Il caso è stato deciso da Cass. Civ., Sez. II, Ord., 21 giugno 2023, n. 17765, relativamente ad un «acquisto, in regime di separazione dei beni, di un immobile da parte di entrambi i coniugi, il cui prezzo sia pagato in tutto o in parte con provvista presa a mutuo».
In seguito alla separazione personale il coniuge che aveva corrisposto integralmente le rate del mutuo ne aveva preteso la restituzione, pro quota, dall’altro. Come a dire che il lavoro domestico svolto dall’altro coniuge non è suscettibile di valorizzazione sul piano economico ed che anzi il mancato espletamento di un'attività lavorativa retribuita equivale, nel caso. alla mancata contribuzione alle iniziative economiche assunte in seno alla famiglia.
Al contrario «ciascun coniuge contribuisce al sostegno ed al benessere della famiglia in forza delle proprie capacità di lavoro anche casalingo, sicché deve ritenersi che il coniuge che in costanza di matrimonio non svolge attività lavorativa e che acquista congiuntamente con l'altro coniuge, sebbene in regime di separazione dei beni, un immobile pagato interamente da quest'ultimo, abbia contribuito in misura paritaria a tale acquisto con il lavoro svolto per soddisfare i bisogni familiari [Cass., 17765/2023]».
La Cassazione ha ritenuto «fatto incontestabile che la ricorrente nel corso della convivenza coniugale aveva contribuito, con il proprio lavoro domestico, al patrimonio familiare, permettendo l'attività lavorativa del coniuge e l'accudimento della prole; patrimonio che veniva accumulato nell'unico conto corrente bancario intestato al marito [Ivi]».
La decisione è ancor più interessante alla luce della esplicitazione del contenuto di alcuni principi che, nel rischio della ridondanza che consegue alla loro costante riproposizione, possono perdere la tangibilitò dle loro concreto contenuto. Per cui la «contribuzione è per i "bisogni della famiglia" e, dunque, va inteso (non nell'interesse esclusivo dell'altro coniuge, ma) in senso solidaristico (cioè nell'interesse collettivo della famiglia) ed ampio (ad es., costituisce adempimento del dovere di contribuzione: mettere a disposizione della famiglia una casa di cui si era già proprietari prima delle nozze affinché vi si possa vivere senza doverne acquistare un'altra; effettuare le spese di ristrutturazione sulla casa di proprietà dell'altro coniuge per poterla abitare congiuntamente; partecipare alle spese per l'acquisto dell'abitazione familiare da parte del coniuge in regime di separazione dei beni; fare la spesa e cucinare tutti i giorni, pulire la casa, anche se con l'aiuto di una domestica; badare ai figli durante il pomeriggio mentre la mattina ci si dedica alla propria attività lavorativa, ecc.); c) il dovere di contribuzione opera sia per le coppie sposate in regime di separazione dei beni che per quelle sposate in regime di comunione dei beni (anche se soltanto in quest'ultimo caso il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia attribuisce a ciascun coniuge un potere sui beni di proprietà dell'altro; mentre, se la coppia è in regime di separazione dei beni, la donna che ad es. si occupi della casa non può vantare alcun diritto sugli immobili di proprietà del marito, e, in particolare, non può impedirgli di venderli); d) il dovere di contribuzione può essere diversamente regolato dai coniugi [Ivi]».
Il valore del lavoro domestico si evidenzia anche nella possibilità che essa costituisca oggetto di accordo valido e vincolante a prescindere dalla forma che assume; i coniugi possono concordare «che uno di essi svolga esclusivamente un'attività casalinga piuttosto che dedicarsi ad un lavoro esterno; o che uno di essi svolga un lavoro professionale part-time e per il tempo restante si prenda cura della casa e dei figli), ma mai soppresso: pertanto, sarebbe nullo l'accordo tra due coniugi con cui si stabilisca che uno di essi non svolgerà alcuna attività lavorativa (né professionale né casalinga). I relativi accordi non devono essere necessariamente scritti ben potendo essere presi verbalmente, prima o dopo le nozze, e anche stretti per comportamenti taciti (ad esempio, se un coniuge non risulta aver mai contestato la scelta dell'altro coniuge di non lavorare per dedicarsi alla casa ed ai figli, si può fondatamente presumere che tale scelta sia stata condivisa); e) l'obbligo contributivo è da ricondursi alla categoria degli obblighi di natura personale in quanto, se è vero che esso ha un contenuto economico, la sua funzione è quella di adempiere all'obbligo di natura personale, ossia quello della solidarietà familiare [Ivi]»
Infine, quanto alal misura del contributo «non esiste norma che stabilisca la misura minima del contributo che ciascuno dei coniugi è tenuto a fornire alla famiglia; come pure non esiste norma che stabilisca come devono essere distribuiti tra i coniugi i diversi pagamenti che accompagnano lo svolgersi della vita ordinaria della maggior parte delle famiglie (spese per i viveri e per il vestiario; spese per l'auto e per la casa; imposte e tasse, ecc.). Sotto l'aspetto economico, per determinare l'entità della contribuzione, rilevano in primo luogo le "sostanze di cui dispone ciascun coniuge (ragion per cui il coniuge, che percepisce uno stipendio più alto, assume generalmente in famiglia l'impegno monetario di maggiore consistenza), ma occorre tener conto anche degli apporti effettuati da ciascun coniuge al momento delle nozze, nonché della circostanza che, come già rilevato, l'obbligo di contribuzione può essere assolto non soltanto con l'attività lavorativa professionale o mettendo a disposizione beni personali (come la casa o l'auto), ma anche il lavoro casalingo" (Sez. 3, n. 5385, 21/3/2023) [Ivi]».
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