Check-up aziendale: analisi della struttura patrimoniale


Nell'effettuare un check-up economico finanziario, dobbiamo innanzitutto investigare nel dettaglio l'attivo e il passivo dello Stato Patrimoniale
Check-up aziendale: analisi della struttura patrimoniale

Lo scopo dell’analisi patrimoniale è quello di investigare la struttura della società, analizzando quel che è presente nell’attivo e nel cosiddetto “passivo” e osservando le relative composizioni delle due “colonne” dello stato patrimoniale. Nella realtà, come abbiamo già visto, queste due voci vanno più correttamente ad indentificare gli INVESTIMENTI (“attivo”) da un lato, e le FONTI DI FINANZIAMENTO (“passivo”) tramite le quali gli investimenti sono resi possibili, dall’altro.

Pe spiegare meglio quest’ultimo concetto, ricordiamo che le aziende:

•    da un lato incamerano denaro, a vario titolo (capitale proprio, utili accantonati a riserva, finanziamenti ma anche debiti di qualsiasi altra natura, in quanto in sé il fatto di pagare i fornitori con una certa dilazione equivale a farsi finanziare dal creditore);

•    dall’altro lato, impiegano quel denaro per acquistare fattori produttivi di vario tipo, e a diverso grado di liquidabilità: si parte, infatti, dagli immobili (che per loro natura sono parecchio lenti ad essere riconvertiti in “cassa”), poi passando per macchine e attrezzature, rimanenze e crediti a breve termine, arrivando infine ai conti correnti bancari, che per loro natura sono già “liquidi”.

L’analisi patrimoniale ha lo scopo di giudicare la situazione dell’azienda partendo, dunque, dallo Stato Patrimoniale riclassificato, ed analizzando le due colonne “a se stanti”, dunque, senza “incrociarle” l’una con l’altra. Giudicheremo, quindi, da un lato la composizione dell’attivo, dall’altro come si è scelto di finanziare il tutto, con particolare attenzione al rapporto fra debiti e capitale proprio. Lo scopo cardine è quello di verificare, innanzitutto, che l’azienda non sia troppo indebitata. Inoltre, tramite l’analisi della composizione degli investimenti, si cerca di capire quanto l’impresa sia “flessibile”, ovvero capace di adattarsi velocemente alle mutevoli esigenze del mercato.

I principali indici che possiamo calcolare, sono i seguenti:

•    il quoziente di indebitamento, calcolato come “(Debiti a medio/lungo + Passivo Corrente)”/“Patrimonio Netto”. E’ ovvio notare, dunque, come più alto sia questo valore, più elevato risulti il totale dei debiti aziendali rispetto ai mezzi propri. Un rapporto pari a 4, per esempio, indica che per ogni euro di mezzi propri l'impresa ha effettuato in totale 5 euro di investimenti, vale a dire che 4 euro di investimenti sono stati finanziati da capitale di debito. Esprime, quindi, il grado di dipendenza da terzi finanziatori (intendendo per “finanziatori” anche fornitori, Stato e  qualunque soggetto accetti di essere pagato con una certa dilazione);

•    l’indice di capitalizzazione esprime lo stesso concetto, in modo probabilmente più immediatamente intellegibile. E’ calcolato (solitamente in percentuale, dunque moltiplicando per 100 il risultato) come “Patrimonio Netto”/“Totale Passivo” e rappresenta, dunque, la percentuale del totale passivo composta da capitale proprio. Esprime, quindi, la % di investimenti aziendali sostanzialmente autofinanziati, senza ricorrere all’indebitamento esterno.

•   L’indice di rigidità degli investimenti (“Totale Immobilizzazioni”/“Totale Attivo”) esprime, anch’esso solitamente in percentuale, quanta parte dell’attivo aziendale (= investimenti) sia rappresentata da immobilizzazioni. Viene definito di “rigidità” in quanto, come noto, le immobilizzazioni rappresentano fattori produttivi destinati a dare la propria utilità in azienda per diversi anni, e proprio per questo sono sottoposti al processo di ammortamento. Giustamente, in economia aziendale, si reputa questa tipologia di investimenti molto più vincolante per l’impresa, a differenza dell’attivo circolante (magazzino, crediti, conti correnti attivi) destinato a “girare” con ritmi decisamente più elevati, e a trasformarsi in liquidità velocemente, quando non già rappresentato da risorse immediatamente disponibili.

Gli investimenti in immobilizzazioni sono invece più vincolanti, difficili da smobilizzare e dunque, in un certo senso, “imprigionano” le risorse di capitale per diversi anni. Facendo un semplice e banale esempio, se l’azienda acquista attrezzature, macchinari, arredi ecc. fa scelte piuttosto leganti, in quanto molto difficilmente potrà scegliere di ripensarci e rivendere il tutto in tempi rapidi e a condizioni vantaggiose (molto più spesso, facendo scelte del genere sarà costretta a rimetterci).

In questo senso appare importante valutare quanto l’azienda sia “rigida”, ovvero in un certo senso “auto costrettasi” all’interno delle sue stesse scelte di investimento. Sia chiaro, comunque, come la valutazione vada fatta tenendo ben presente all’interno di quale settore economico ci troviamo: ce ne sono alcuni in cui un’elevata intensità di capitale immobilizzato appare condizione imprescindibile per operare, mentre in altri casi le aziende semplicemente esagerano con gli investimenti pluriennali, operando in questo caso scelte degne di essere almeno messe in discussione.

Il discorso si complica considerando che, a volte, le aziende hanno valori molto elevati di “immobilizzazioni immateriali” (ad es. : avviamento, spese di ricerca e sviluppo, costi di pubblicità pluriennali, ma anche brevetti, software ecc.). In questi casi, il giudizio va certamente approfondito, entrando nel merito di cosa siano, in realtà, queste voci, anche perché a volte capita che al loro interno ci siano poste utilizzate, in parte, per “coprire” perdite economiche che si cerca di occultare. La questione, qui, si fa però complicata, ed esula dagli scopi introduttivi di questo articolo.

 

Articolo del:


di Marco Massari

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