In Italia ci sono 4 morti sul lavoro al giorno
Ogni sei minuti nel mondo muoiono 25 persone in incidenti sul lavoro, ogni ora in Africa e Asia muoiono 13 bambini circa.
In Italia ci sono 4 morti sul lavoro al giorno, più di 100 al mese, 1394 all’anno.
I costi di questa strage planetaria ammontano a 1.251 miliardi di dollari, pari al 4 per cento del Pil mondiale, una cifra 20 volte superiore ai fondi stanziati per lo sviluppo.
In Italia il costo sociale degli incidenti sul lavoro è stimato intorno ai 104 miliardi di euro, pari al 6% del PIL. Questi dati, elaborati dall’International Labour Organization dell’ONU, tengono conto solo delle stime ufficiali, dei dati denunciati e rilevati ma non del sommerso e del lavoro nero.
Una guerra quotidiana che ha fatto parlare anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La sicurezza sul lavoro è “parte essenziale del nostro patto costituzionale” e “vorremmo che intorno a questa necessità si mobilitasse il fronte più ampio, un patto di alleanza tra istituzioni, società civile, forze sociali ed economiche, per sottolineare con forza l’impegno a combattere un flagello che sconvolge la vita di troppe famiglie”. Inoltre ricorda come gli incidenti sui luoghi di lavoro rappresentino “una umiliazione per il mondo delle imprese e una sconfitta per chi, producendo beni e servizi, vede la propria attività sfigurata da queste morti”.
In Italia nel 1964 in pieno boom economico ci furono 3600 morti sul lavoro. Oggi siamo circa ad un terzo. Nell’Ottocento in Italia c’era un morto ogni 100 lavoratori, oggi succede in Mozambico.
Ma non è necessario andare tanto lontano per trovare imprenditori senza scrupoli che staccano le protezioni dei macchinari per aumentare la produttività, incentivano procedure non sicure per mantenere gli standard di produzione o costringono i dipendenti a mansioni inadeguate senza il necessario addestramento, una delle cause principali d’infortunio sul lavoro.
Il 47 per cento degli infortuni che avvengono nella Unione Europea hanno come vittime lavoratori che non stavano svolgendo la propria mansione.
In Italia si conferma che esiste un divario tra nord e sud. Le regioni che denunciano più incidenti sul lavoro sono Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. Se si guarda al sommerso e al lavoro nero è in testa il sud.
Guardando meglio c’è anche altro. Nelle aziende più piccole e a bassa tecnologia, si rischia di più. E’ convinzione diffusa che il settore edile sia quello dove avvengono i maggiori incidenti, ci si basa sulla gravità degli infortuni, ma sono le imprese sotto i 250 dipendenti, quelle più pericolose. All’origine di questa situazione secondo gli esperti ci sono più fattori. Ci sono industriali che vedono il D.Lgs. n. 81 del 09/04/2008 come un laccio alla liberta d’impresa, senza contare, poi, che per molti competitività fa rima con l’abbattimento dei costi e non con qualità.
Il 15 maggio 2008 è entrato in vigore il D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, “Unico testo normativo in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori” (Testo Unico della Sicurezza) e sicuramente i morti non diminuiranno. Il problema , come al solito non sono le leggi ma il rispetto della legge che deve essere affidato ai cittadini e non alla polizia. Questo in sintesi vuol dire sviluppare la cultura della sicurezza sul lavoro.Si dovrebbero fare alcune cose, ad esempio che i giornalisti e gli opinionisti chiedessero ed indagassero su cose semplici. Bisogna chiedere e sapere subito chi è il Responsabile del Servizio di Prevenzione e di Protezione: dato che in ogni azienda ne è obbligatoria la designazione perché nessuno ci dice mai chi è il RSPP e venga reso noto il nome? Chi è il medico competente che deve aver fatto il piano di sorveglianza sanitaria, visitato gli ambienti di lavoro e verificare il loro stato? Chi è il Rappresentante dei Lavoratori? Nome e cognome. Sono stati nominati gli addetti al primo soccorso, alla prevenzione incendi ed alle emergenze? Chi sono? Quanti sono?
Queste domande chiedono una risposta perché ci porta al discorso sulle capacità effettive di attuare azioni per ridurre i rischi sviluppare una politica che possa diminuire gli infortuni e le morti bianche. Le nomine e le designazioni, infatti, sono tutte seguite dall’obbligo della formazione: se una persona viene formata e addestrata sarà certamente più preparata e più attenta alla propria sicurezza ed a quella dei compagni di lavoro. Vediamo ad esempio il caso dei due fratelli morti folgorati (anno 2008), mentre pulivano una cisterna.
Le cronache hanno descritto che “il destino ha voluto che la cisterna fosse posteggiata proprio sotto i cavi dell’alta tensione…” Ma quale destino!. Le cose sono molto più semplici e, purtroppo drammatiche. L’azienda ha l’obbligo ad effettuare una valutazione dei rischi e bastava una seria valutazione per vedere e dire:
- pericolo per i cavi dell’alta tensione scoperti,
- prendere opportuni provvedimenti per isolare i cavi
- nell’attesa degli interventi impedire il “posteggio” sotto i cavi
- segregare l’area per impedire il “posteggio”
Ma la legge dice di più: i lavoratori dipendenti dovevano conoscere la situazione di pericolosità rappresentata dai cavi dell’alta tensione in quanto il datore di lavoro doveva svolgere un apposito corso di informazione. Ed il medico competente non ha mai visto il sito produttivo e l’area di lavoro? E gli incaricati alle emergenze e primo soccorso sapevano di questi rischi? Andiamo avanti. I lavoratori esterni conoscevano le condizioni e gli ambienti di lavoro della ditta appaltatrice? E’ stata applicata la norma che prevede il coordinamento tra i datori di lavoro?
Un altro caso riguarda la morte, l’ennesima, avvenuta a Taranto. Perché l’operaio caduto da 8 metri non aveva l’imbracatura? Certamente ci doveva pensare il proprio datore di lavoro ma non è una risposta sufficiente: anche l’azienda proprietaria doveva vigilare sull’applicazione delle norme, assicurarsi che gli appaltatori fossero in regola con le norme di sicurezza. Ogni azienda ha redatto il VDR (che vuol dire Documento della Valutazione dei Rischi) oppure si trattava di una fotocopia o stampato da un programmino informatico?
E in questo VDR è stato applicato, quello che c’è scritto, è stato portato a conoscenza dei lavoratori. Oppure era solamente carta di adempimento amministrativo burocratico. Ecco allora che, ancora una volta, emerge il ruolo fondamentale della formazione. Solo una seria ed effettiva formazione può aiutare i lavoratori nel processo dell’apprendimento che però deve tendere al cambiamento dei comportamenti umani verso una nuova e concreta sicurezza sul lavoro.
Formazione solo formale
Al superamento dei 1.300 morti nell'anno appena trascorso, come ci dicono i dati statistici provvisori, non si vede via d'uscita.
Non servono nuove leggi, basterebbe applicare quelle che ci sono. In effetti, tutti coloro che svolgono attività di sicurezza sul serio, sanno che le leggi ci sono e basta applicarle. Ma questo è il problema. L'applicazione della norma che nel nostro paese è più di forma che di sostanza.
Vorrei fare un esempio che riguarda, direttamente, la categoria dei formatori.
Qualche tempo fa delle parrucchiere di mia conoscenza sono andate, per 4 ore nella giornata di un lunedì, a svolgere il corso di informazione previsto dall'art. 36 D.Lgs. 81/08 organizzato da una associazione di artigiani. Buona cosa. Informazione, conoscenza delle norme, piccole regole dell'emergenza, ecc.. Però le parrucchiere mi hanno detto che si sono annoiate a morte in quanto si sono ritrovate in una sala con altre 50 persone appartenenti a categorie differenti.
Il docente ha parlato, per un'ora e mezza, della legge. Facendo vedere slides con tutti gli articoli del D.Lgs. 81/08: la cosa ovviamente non ha ne interessato né entusiasmato nessuno.
Poi venendo all'analisi dei rischi presenti sul luogo di lavoro ha trattato il tema delle macchine utensili (che interessava solo i pochi apprendisti di un'azienda metalmeccanica), in seguito ha parlato dei carrelli elevatori, dei carri ponte, del rischio chimico e così via. Per l'antincendio ha illustrato cosa significa il triangolo del fuoco e le varie classi di incendio. Ed alla fine del corso, ha distribuito a tutti un libretto di oltre 100 pagine contenete tutta la legge sulla sicurezza con evidenziati gli obblighi del datore di lavoro ed in bella evidenza tutte le sanzioni. Una volta si diceva che è meglio questo tipo di informazione che niente.
Bisogna avere il coraggio di affermare che questo tipo di informazione non serve a nulla: anzi è diseducativa ed allontana i lavoratori dalla cultura della sicurezza.
Serve solo a dire di aver adempiuto alla legge. Ma ne siamo proprio sicuri? La Corte di Cassazione ha indicato l'obbligo della formazione come atto non meramente formalistico degli obblighi di legge.
Confusione e pressapochismo
Si deve osservare, al proposito, ancora una volta la confusione regnante tra informazione e formazione. Si tratta di due aspetti diversi e differenti di cui uno non esclude l'altro e anzi ne sono complementari e armonizzati ma non confusi in un tutto uno.
L'informazione deve essere data a tutti i lavoratori. La legge dice chiaramente quali sono le nozioni Nei corsi, con decine e decine di persone provenienti da aziende diverse, vengono dati i nominativi del RSPP, del medico competente e degli incaricati al primo soccorso ed alla prevenzione incendi? In questo caso anche i formatori hanno la loro responsabilità: grave e grande Non possono trascurare l'informazione di questi elementi fondamentali.
Raccontare articolo per articolo il T.U. non serve quasi a niente perché il vero problema resta quello di conoscere i rischi presenti sul luogo di lavoro, le misure di sicurezza e chi fa che cosa? L'insegnamento della legge è operazione semplicistica di esercizio puramente formalistico. Una volta assolto, bene, l'obbligo dell'informazione ogni lavoratore deve ricevere una adeguata “formazione” correlata alla propria mansione ed all'ambiente lavorativo.
La formazione inadeguata
La formazione ricade sotto la responsabilità dei formatori. Buoni formatori, spesso, si trovano nella condizione di fare semplici lezioni e non attività formativa. Infatti una formazione senza la verifica finale degli apprendimenti e soprattutto che non produce cambiamenti resta una bella lezione teorica. E per verifica dell'apprendimento lo strumento dei test è l'inizio e non la conclusione del percorso. Non sono sufficienti una serie di domande a risposta multipla per verificare l'apprendimento: dipende dal contesto in cui sono state poste e soprattutto dal modello di correzione e partecipazione alla discussione. Infine solo il monitoraggio dell'apprendimento in termini di cambiamento, da svolgersi con la formazione continua, assicurano l'efficacia dell'azione formativa.
In questo senso, più della legge, la Corte di Cassazione con le sue sentenze ha indicato un percorso per procedere correttamente nell'attuazione della formazione. Molte sentenze hanno evidenziato un approccio “semplicistico” ad una problematica di vitale interesse per la prevenzione degli infortuni come è la formazione.
Sulla base di dei giudizi e delle sentenze della Corte è possibile indicare quali solo i principali indici di una formazione ritenuta inadeguata.
• La formazione è spesso incoerente ed insufficiente con i rischi aziendali in quanto svolta con interventi di poche ore, spesso, a carattere episodico.
• La mancata formazione sui veri rischi dell'azienda nonché una formazione indifferenziata, uguale per tutti, che non tiene conto delle mansioni, età, esperienza, sesso.
• Interventi pseudo formativi come l'adozione di linee guida generiche e distribuzione “solo” di manuali, presenti in commercio, acquistati e distribuiti ai lavoratori senza azioni formative.
• Uso di strumenti basati unicamente sull'autoformazione laddove i lavoratori seguono da soli un videocorso oppure la formazione basata solo su e- learning. Questi sono strumenti multimediali didattici, utili ed importanti, solo se utilizzati dal docente all'interno delle azioni formative e non possono sostituire in alcun caso una vera e propria formazione.
• Cattiva organizzazione dei corsi e mancata valutazione dei livelli di apprendimento.
• Errata o semplicistica somministrazione dei test e assenza totale di osservazione successiva relativa ai comportamenti ed ai cambiamenti. Inadeguatezza della sede formativa ed orari di svolgimento serali dopo il lavoro. A ciò si aggiunga spesso l'incompetenza dei docenti che trattano di tutto.
• La inadeguatezza della progettazione formativa è stata più volte richiamata anche dall'Agenzia Europea della Salute in quanto spesso, l'intervento formativo non risponde alle caratteristiche comportamentali ed ai bisogni dei lavoratori.
Non servono ulteriori nuove leggi ma, sicuramente, la loro precisazione e soprattutto la coerenza dei comportamenti dei soggetti e degli operatori a tutti i livelli.
Una prospettiva
La formazione basterebbe farla sul serio. Certamente una adeguata normativa potrà contribuire alla sua definizione soprattutto nei termini di identificazione dei soggetti formatori (iniziata con gli Accordi tra Stato e Regioni) nonché nell'accreditamento dei formatori. Naturalmente il richiamo alle responsabilità dell'azienda sono alla base di un nuovo modo di intendere la formazione nel suo contesto di “effettività” e non solo di adempimento normativo.
In questa direzione il Titolo I, del D.Lgs. n. 81 del 09/04/2008 , presenta una importante novità nella puntualizzazione del ruolo e delle responsabilità dei Dirigenti e dei preposti che devono affiancare il datore di lavoro.
Infatti oltre alla definizione di “dirigente” e “preposto”, quali soggetti attuatori delle disposizioni di legge, gli obblighi del datore di lavoro sono ampliati al dirigente ed uno specifico articolo riguarda i preposti.
Si tratta di una presa d'atto chiara e decisa, già definita dalla giurisprudenza sentenziale, che vede nelle responsabilità del processo formativo circolare, quale continuo interagire tra formazione e attuazione, controllo e valutazione dei rischi, lo svolgimento del ruolo attivo non solo del Datore di lavoro ma soprattutto dei dirigenti e preposti aziendali.
Al datore di lavoro, responsabilizzato più per la sua “titolarità di spesa” che non dell'importanza formativa si aggiungono i due soggetti che, all'interno dell'organizzazione aziendale, ne rispondono in termini di competenze decisionali, operativi ed esecutivi.
Si tratta di attuare un percorso di adeguatezza e di effettività della formazione.
La formazione richiede una azione continua e positiva svolta dai datori di lavoro e supportata da dirigenti e preposti volta a verificare, tramite docenti e formatori, l'effettivo apprendimento che deve produrre il cambiamento dei comportamenti nelle attività lavorative.
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