Le azioni revocatorie tra decadenza e prescrizione


Il contrasto giurisprudenziale generato dal doppio termine inserito nell'art.69 bis della l.f.
Le azioni revocatorie tra decadenza e prescrizione

Le azioni revocatorie nel fallimento sono regolate dagli articoli 64, 65, 66, 67, 69 e 69 bis l.f. L’ultimo articolo, soprattutto per quanto riguarda il primo comma, è stato oggetto di annoso contrasto giurisprudenziale anche al più alto livello, quello della Cassazione. Vediamo il perché: l’art. 69 bis l.f., co. 1 recita: “Le azioni revocatorie disciplinate nella presente sezione non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque decorsi cinque anni dal compimento dell'atto”.

Perché questo doppio termine? Si tratta di decadenza o di prescrizione? Si applica anche alla revocatoria ordinaria ex art. 66 l.f.?
Una ben argomentata sentenza del Tribunale di Napoli (sez. 3 del 27 marzo 2014) ha riassunto il problema.
La fattispecie concreta era questa: una società, fallita il 22 luglio 2009 aveva, nei sei mesi precedenti la dichiarazione, operato pagamenti in favore della soc. C, annotati nel libro giornale e revocabili ex art. 67.
Per questo la curatela del fallimento aveva convenuto la soc. C con citazione del 31 luglio 2012 sostenendo che ricorrevano tutti i presupposti per la revocatoria ex art 67, co.2 l.f., compreso quello della piena consapevolezza dello stato di insolvenza della società, poi fallita. Da ciò la richiesta di inefficacia dei pagamenti effettuati e condanna alla restituzione con accessori. La soc. C era rimasta contumace.
Il Tribunale (in composizione monocratica) decideva, cominciando col chiedersi se il termine triennale dell’art. 69 bis sia di decadenza o di prescrizione. E’ evidente il perché: stante la contumacia della convenuta il Tribunale non poteva eccepire d’ufficio la prescrizione. Quanto alla decadenza, il fallimento aveva consegnato per la notifica l’atto oltre i tre anni, ma neppure la decadenza poteva esser rilevata d’ufficio dal Giudice, salvo che non fosse in materia sottratta alla disponibilità delle parti (art. 2969 c.c.).
Diversi elementi concorrevano a ritenere il termine triennale di decadenza: l’esplicita definizione contenuta nella rubrica; il termine breve, contemplato come prescrizione solo in caso di prescrizione presuntiva; maggior peso avevano, però, la lettera della legge (“le azioni revocatorie...non possono esser promosse...”) ed il suo scopo: stabilire una condizione oggettiva necessaria per la tutela.
A questo si aggiunge l’esame sistematico delle condizioni e modalità di tutte le revocatorie esperibili nel fallimento: il Tribunale riteneva perciò il termine triennale di decadenza riferibile ad entrambe le revocatorie contemplate dalla legge fallimentare, mentre il termine quinquennale sarebbe certamente riferibile a quella ex art. 66 l.f.., che richiama espressamente le norme codicistiche e quindi anche l’art. 2903 c.c..

 

La terza sezione della Cassazione successivamente intervenne con la sentenza 8680 del 2017.
La parte ricorrente aveva dedotto che il termine triennale non poteva riguardare la revocatoria ordinaria ex art. 66 l.f..
Se così fosse – argomentava – sorgerebbe dubbio di costituzionalità perché il curatore fallimentare, che adotta tale procedura e che, talvolta, subentra nel giudizio instaurato da un privato, si troverebbe discriminato rispetto a quest’ultimo, essendo gravato dal doppio termine, invece estraneo al procedimento puramente civilistico.
La Corte d’Appello aveva dichiarato inammissibile il ricorso con ordinanza ex art. 348 bis e ter e quindi l’argomentazione del ricorrente era rivolta alla sentenza del Tribunale che, respingendo la domanda di revocatoria, aveva ritenuto pacifica la giurisprudenza riguardante la natura prescrizionale del termine triennale, applicabile, secondo lui, anche alla revocatoria ordinaria ex art. 66 l.f..


La Cassazione, investita del problema, dopo aver osservato che non sussisteva alcuna giurisprudenza costante nel senso indicato dal Tribunale, rilevava che l’art. 66 prevede l’utilizzo della revocatoria ordinaria da parte del curatore fallimentare, anche accettando che possa subentrare nella posizione del precedente attore, secondo le norme civilistiche espressamente richiamate nell’articolo.
E’ evidente perciò – concludeva – che la struttura processuale non può essere alterata con l’introduzione, da parte della legge fallimentare, di ulteriori limitazioni, estranee all’impianto codicistico, qual è la decadenza triennale, che quindi non si può applicare alla revocatoria ordinaria promossa dal curatore fallimentare.  
Ad ulteriore conferma di tale interpretazione la Corte osservava che, significativamente, il comma 2 dell’art. 69 bis non richiama l’art. 66, ma solo quelli che hanno nella dichiarazione di fallimento il loro imprescindibile presupposto.

Insomma: la revocazione ordinaria prevista dall’art. 66 si identifica con quella ex art. 2901 c.c. che sorge prima del fallimento e che resta disciplinata dal codice civile.

 

Questione risolta dunque? No, perché poco dopo sul problema si pronunciava diversamente ancora la Cassazione, ma, stavolta a sezioni unite (Cass. S.U.10233/17).
La Corte osservava che, se è vero che la revocatoria ex art. 66 l.f. ha gli stessi presupposti di quella ex art. 2901 c.c. non per questo può esser considerata azione che non sia direttamente derivante dal fallimento.
Non si può identificare la revocatoria ordinaria ex art. 66 l.f. con quella ex art. 2901 c.c. per vari motivi, che elenca, ed uno di questi è rappresentato dal doppio termine (triennale di decadenza e quinquennale di prescrizione) che ad essa si applica.
Invero la Corte non motiva come, pur sussistendo alcune differenze, si possa applicare alla revocatoria ordinaria del fallimento, espressamente retta da norme codicistiche, una decadenza estranea a queste ultime, limitandosi a dedurlo come un fatto, senza neppure curarsi di confutare il diverso orientamento di Cass.8680/17, sentenza da pochi giorni depositata.
Come si spiega? Occorre considerare la fattispecie concreta e la questione di diritto insorta e presa in esame dalle Sezioni Unite ben diversa da quella di cui si era invece occupata la Sezione Terza.

 

La vicenda, di cui si erano occupate le Sezioni Unite, riguardava una revocatoria fatta valere nei confronti di una banca maltese, dove i debitori avevano depositato cospicui fondi. La banca contestava la giurisdizione del giudice italiano in favore del giudice maltese con richiamo a norme regolamentari della CE.
La Cassazione si richiamava invece ad altro regolamento della CE, più favorevole alla giurisdizione italiana, ma a patto di idonea interpretazione degli art. 66 e 69 bis l.f., diversa però da quella fornita da Cass. Sez. III.
Vale la pena riportare le ultime frasi della sentenza delle Sezioni Unite per intendere i motivi della decisione.
“Non varrebbe d’altronde replicare che quella sopra indicata rappresenterebbe solo una delle due possibili letture, per cui nel dubbio dovrebbe seguirsi l’altra, propugnata dalla Bank of Valletta, dato che secondo i principi affermati dalla CGUE, a fronte di due interpretazioni alternative, bisogna privilegiare quella che amplia l’accezione di materia civile e commerciale di cui al reg. CE 44/2001 e non quella che allarga il campo di applicazione del reg CE 1346/2000 (v. sentt in C-292/08 e 157/13, par. 22). Per le considerazioni sopraesposte, la lettura indicata dal Collegio, rappresenta l’unica consentita dalla legge nazionale e comunitaria e può essere pertanto predicata senza necessità di procedere al rinvio pregiudiziale richiesto dalla Bank of Valletta...Tenuto conto di ciò e, considerato che l’inquadrabilità nell’area del reg. 1346/2000 esclude l’operatività del reg. 44/2001, deve essere affermata la giurisdizione del giudice italiano”.
Si tratta insomma di decisione, questa delle Sezioni Unite, che non pretende di far luce definitiva sul contrasto di giurisprudenza, ma che lascia aperta una porta verso opposte interpretazioni per impedire che, in quest’epoca di globalizzazione e di contrastanti regolamenti internazionali, si possa abilmente sfuggire ai propri impegni creditizi con depositi all’estero.
Tuttavia il mezzo prescelto, pienamente giustificato, ha, come risultato, quello di mantenere aperto il dibattito e l’incertezza su di un nodo cruciale del nostro ordinamento.

 

Articolo del:


di Avv. Pietro Bognetti

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