È giusto sacrificare la propria vita per il lavoro?


E' giusto fare del lavoro una parte importante della nostra vita, quando poi è la stessa natura umana a poter cancellare tutto in un attimo?
È giusto sacrificare la propria vita per il lavoro?

Un lavoro appassionante ti aiuta a diventare dipendente del tuo lavoro. A creare una tua identità. Alla fine "sei il tuo lavoro". E, forse, il rischio a volte è perdersi un pezzo di vita. I figli ad esempio.

Ha fatto notizia in Italia, su questo argomento, il cosidetto Stile Marchionne (il Sole 24 Ore) pubblicato nel 2011; Riccardo e Maria Ludovica Varvelli – formatori e consulenti che hanno pubblicato più di 50 libri dedicati alla cultura manageriale – dipingono il quadro di un manager in cui la leadership si identifica con l’impegno quotidiano. Tratteggiando lo stile di lavoro di Marchionne scrivono: “I manager Fiat devono sapere che prima di tutto, prima della famiglia e del tempo libero, c’è il lavoro. Chi non afferra questo concetto è bene che si cerchi un altro posto”.

Possibile che tutto fosse finalizzato solo al risultato, o a ritagliarsi un posto nei libri di management?

Quella della figura professionale che diventa parte della propria identità più intima è la lettura proposta da Roberto D’Incau, headhunter e business coach, tra i più importanti opinion leader in ambito hr in Italia.
“Marchionne non è l’unico uomo di potere che fino al giorno prima rimane ben fermo ai posti di combattimento, e il giorno dopo si ritrova invece a fare i conti con una grave malattia, che lo fa uscire di scena repentinamente. In un personaggio come Marchionne colpisce prima di tutto dove lo ha portato la passione per il proprio lavoro. A Sergio Marchionne la passione lavorativa, la voglia di fare e di farcela non sono certo mai mancate. Metterei Marchionne nel gruppo delle persone che fanno della propria identità lavorativa, del proprio copione professionale, il tema fondante della propria vita, quello assolutamente prioritario nei loro rapporti col mondo esterno. Le persone che stanno poco bene, di solito, si ritraggono, fanno i conti col proprio decadimento di salute; questi personaggi no, è come se togliendo il ruolo lavorativo venisse loro meno l’identità più forte. Non è una critica la mia, è semplicemente una constatazione: il ruolo professionale in figure con questo drive viene prima di tutto, fino a farli diventare a volte dei workaholic, perché in questi casi quel ruolo ha costituito l’identità della persona, prima che del personaggio”.

Forse, quindi, è poco possibile rispondere alla domanda iniziale: vale la pena sacrificarsi per la carriera?

Entrano in gioco le convinzioni, i valori e le esperienze di ciascuno. Così come pare impossibile stabilire se a Marchionne bastasse la gratificazione dei risultati o quella economica, o se invece ritenesse quello da timoniere di Fca “il suo posto nel mondo”, o forse Marchionne, in fondo un dipendente anch’egli, aveva capito come l’impresa altro non è che l’insieme delle persone che la costituiscono; persone capaci di fare la differenza, anche singolarmente. Non è un caso che lui, da dipendente, sia arrivato a rappresentare l’identità di Fiat Chrysler nel mondo più di quanto non facessero gli stessi azionisti del gruppo, i suoi “padroni”.

Penso che ognuno di noi dia al lavoro il proprio significato, c’è chi trova dignità, c’è chi ci vede una necessità, per alcuni è sinonimo di status, ad ogni modo un mezzo per raggiungere una situazione di benessere. Importante, dal mio punto di vista, è ricordarsi sempre che il benessere o felicità che sia non deve essere l’obiettivo, ma il percorso.

Questo significa abitare il nostro tempo ovvero vivere con gusto la nostra vita.
Nella società odierna, esiste una distorsione concettuale, si continua a concepire vita e lavoro come due elementi distinti.

È necessario a mio avviso amalgamarli portando più vita nel lavoro.

 

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di Mauro Dotta

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