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Cessazione della qualità di rifiuto, quando avviene?


Le ipotesi in cui un rifiuto, dopo una attività di recupero, può considerarsi nuovo prodotto commercializzabile
Cessazione della qualità di rifiuto, quando avviene?

La “Cessazione della qualità di rifiuto” (end of waste), così come espressamente disciplinato dall’art. 184 ter D.lgs. n. 152/2006, avviene quando si concretizzano quattro condizioni:

a) deve esservi stata – appunto – una operazione di recupero mediante riciclaggio o altro processo analogo;

b) deve esistere un mercato e una domanda per il prodotto risultante dall’attività di recupero (e, pertanto, quest’ultimo deve avere un valore economico);

c) deve trattarsi di prodotto utilizzabile per “scopi specifici” in relazione ai quali deve essere verificata la rispondenza a specifici requisiti tecnici e standard;

4) il riutilizzo del prodotto de quo non deve determinare impatti negativi sull’ambiente e sulla salute umana.


Il secondo comma della norma citata dispone, tra l’altro: “…I criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto”.

Per espressa previsione normativa, quindi, in assenza di disciplina comunitaria, il Ministero dell’Ambiente è il solo ente nazionale competente ad individuare, a integrazione di quanto già previsto dalle direttive comunitarie, gli ulteriori "tipi" di materiale che possono essere considerati come "non rifiuto", in quanto riciclabile, sulla base di un'analisi da svolgersi caso per caso.

La giurisprudenza amministrativa sì è già espressa sul punto statuendo che: “La disciplina della cessazione della qualifica di "rifiuto" è riservata alla normativa comunitaria, nondimeno questa ha consentito che, in assenza di proprie previsioni, gli Stati membri possano valutare caso per caso tale possibile cessazione… dandone informazione alla Commissione".

Il destinatario del potere di determinare la cessazione della qualifica di rifiuto è, per la Direttiva, lo "Stato", che assume anche obbligo di interlocuzione con la Commissione.
La stessa Direttiva UE, quindi, non riconosce il potere di valutazione "caso per caso" ad enti e/o organizzazioni interne allo Stato, ma solo allo Stato medesimo, posto che la predetta valutazione non può che intervenire, ragionevolmente, se non con riferimento all'intero territorio di uno Stato membro.

Ciò è quanto ha fatto il legislatore statale, attribuendo tale potere al Ministero dell'Ambiente, ed anzi fornendo una lettura del "caso per caso", non già riferito al singolo materiale da esaminare ed (eventualmente) declassificare con specifico provvedimento amministrativo, bensì inteso come "tipologia" di materiale da esaminare e fare oggetto di più generale previsione regolamentare, a monte dell'esercizio della potestà provvedimentale autorizzatoria.

D'altra parte, la previsione della competenza statale in materia di declassificazione "caso per caso" del rifiuto appare del tutto coerente, oltre che con la citata Direttiva UE, anche con l'art. 117, comma secondo, lett. s) della Costituzione che, come è noto, attribuisce alla potestà legislativa esclusiva (e, dunque, anche alla potestà regolamentare statale), la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema. E' del tutto evidente che, laddove si consentisse ad ogni singola Regione, di definire, in assenza di normativa UE, cosa è da intendersi o meno come rifiuto, ne risulterebbe vulnerata la ripartizione costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni" (Cons. Stato Sez. IV, n. 1229 del 28.02.2018).

La disposizione richiamata al comma 2 dell’art. 184 ter d.lgs. cit., così come interpretato dal G.A., fa quindi rinvio ad un regime giuridico di là da venire, ossia a quello successivo all'adozione dei decreti attuativi ancora in fieri: nelle more, continua ad applicarsi il D.M. 5 febbraio 1998 nella sua interezza.

L’art. 3 del D.M. 5/2/1998 dispone che: “Le attività, i procedimenti e i metodi di riciclaggio e di recupero di materia individuati nell'allegato 1 devono garantire l'ottenimento di prodotti o di materie prime o di materie prime secondarie con caratteristiche merceologiche conformi alla normativa tecnica di settore o, comunque, nelle forme usualmente commercializzate. In particolare, i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dal riciclaggio e dal recupero dei rifiuti individuati dal presente decreto non devono presentare caratteristiche di pericolo superiori a quelle dei prodotti e delle materie ottenuti dalla lavorazione di materie prime vergini…Restano sottoposti al regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati in modo effettivo ed oggettivo all'utilizzo nei cicli di consumo o di produzione”.

Pertanto potrà considerarsi commercializzabile solo il prodotto le cui caratteristiche tecniche sono normativamente previste.

 

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L'autore è esperto in Diritto ambientale
AVV. ELENA CAFARO
Via Dalmazia 161 - 70121 Bari (BA)
70124 - Bari (BA), Puglia


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